Inchieste13 Febbraio 2024 11:29

Ex Ilva, così in Italia latte e acciaio svenduti da governi passati a Ue e stranieri. Obiettivo era competere ma furono schiacciati

Prosegue la protesta degli imprenditori dell’indotto ex Ilva. A fronte dell’ultima crisi, le imprese invocano tutele per i crediti vantati nei confronti di Acciaierie d’Italia (almeno 140 milioni di euro) che rischiano di andare perduti in caso di ricorso all’amministrazione straordinaria. Come già accadde – con 150 milioni di euro in crediti in fumo – quando l’Ilva fu commissariata nel 2015. I sindacati Fim, Fiom e Uilm hanno dichiarato nei giorni scorsi di essere pronti ad autoconvocarsi a Palazzo Chigi per “un confronto urgente e necessario a garantire la continuità produttiva e occupazionale di Acciaierie d’Italia”.

A Roma si riuniscono invece i trattori – non quelli di Riscatto agricolo che si sono incontrati con le istituzioni – per alzare la voce sulle problematiche dell’agricoltura: ora che il problema Irpef sembra essere risolto, restano i costi di produzioni troppo alti a fronte dei ricavi.

E l’ex ministro leghista Roberto Castelli getta benzina sul fuoco ricordando le quote latte: “se gli agricoltori manifestano disagio, gli allevatori cui sono state pignorate le stalle sono disperati. Molti si sono suicidati” spiega a La7 ricordando anche come “la versione Ue è assolutamente falsa e i dati taroccati”.

ll latte e l’acciaio, due vicende parallele che raccontano di una storia italiana. Da quando Filippo Maria Pandolfi –  ministro dell’Agricoltura – scambiò il latte con l’acciaio nella trattativa con l’Unione Europea nell’anno di introduzione delle quote.

Era il 1984 e Pandolfi prese come anno di riferimento il 1983, un’annata particolarmente bassa a livello produttivo. Le promesse fatte dall’ex ministro ai produttori agricoli relative al fatto che non avrebbero mai pagato le sanzioni, hanno portato nel 1997 alla denuncia, assieme ai suoi successori al ministero, per presunti comportamenti omissivi in relazione alla mancata adozione delle sanzioni, ma pochi anni dopo venne assolto dalla Corte dei Conti.

Era invece il 1937 quando nasce la Finsider, che rileva gli impianti dell’Ilva, quelli di Genova-Cornigliano (Ansaldo) e quelli di Terni e di Piombino. Nel secondo dopoguerra fu Oscar Sinigaglia a portare l’Ilva – assistita dallo Stato già dal 1911 – a Taranto. Obiettivo era: competere con l’Unione europea. Un sogno che si avverò per qualche anno con la produzione che aumentò del 200% per poi crollare negli anni 80 proprio per l’eccessiva capacità produttiva e a causa della concorrenza di altri materiali.

I produttori di latte, negli stessi anni, si trovavano improvvisamente nell’impossibilità di poter produrre perché avrebbero ‘splafonato’ le quote loro assegnate. Si sono venute a creare tre ‘famiglie’ di allevatori: quelli che hanno continuato a produrre a fronte delle promesse dell’allora ministro competente; quelli che hanno rispettato le quote (pochi); e quelli che hanno comprato le quote da altri allevatori indebitandosi attraverso mutui bancari.

Tra l’ 82 e l’ 87 – sotto la gestione di Lorenzo Roasio e Sergio Magliola – la Finsider perdeva 7.500 miliardi e lo stabilimento di Bagnoli fu chiuso per ordine della Cee. Finsider fu svenduta ad Arcelor Mittal dall’Iri di Romano Prodi e del suo assistente Massimo Tononi, presidente di Cassa Depositi e prestiti fino al 24 ottobre 2019. Cdp che gioca un ruolo necessario anche nell’affaire Arcelor Mittal-Ilva. Entrambi, sia Mittal che Tononi, erano legati alla Goldman Sachs. Il primo era nel Cda dal 2008; il secondo aveva fatto avanti e indietro tra incarichi nelle istituzioni italiane e la società finanziaria dove si occupava di acquisizione e fusione di aziende.

Negli stessi anni le quote latte – di fatto un regime di contingentamento della produzione volto a regolare l’offerta – interveniva sulle decisioni degli imprenditori agricoli, disincentivando fortemente la produzione e gli investimenti oltre certi limiti.

Nel frattempo la Germania investiva sia sull’acciaio che sul latte.

L’Italia ha pagato quasi due miliardi di euro di sanzioni all’Unione europea per lo splafonamento delle quote latte (che deve farsi ridare dagli allevatori per non essere ulteriormente multata per aiuto di Stato) e ha speso per l’Ilva – solo fra il 2013 e il 2018 – fra i 3 e i 4 miliardi di euro l’anno (circa due decimi di punto di ricchezza nazionale) che si vanno ad aggiungere ai 30 miliardi di perdita registrati già nel 1993.

Il comparto del latte è in perenne difficoltà a causa della scarsa redditività e della mortificazione produttiva imposta per anni dall’Unione Europea. Ma soprattutto per l’effetto boomerang causato dalla fine – nel 2015 – del regime che ha portato all’improvviso a un calo del 12% del prezzo del latte e alla chiusura di circa 150 stalle all’anno. Chiudono le stalle, ma è il frutto di un naturale processo di concentrazione. Il settore resiste.

Il comparto dell’acciaio è al capolinea a causa del mancato adeguamento dello stabilimento ex Ilva e di anni di assistenza da parte dello Stato senza investimenti per un futuro.

Proprio nell’autunno del 2019 il Gruppo Arvedi, uno dei principali protagonisti del mercato europeo dell’acciaio (ex azionista anche del Corriere della Sera) aveva iniziato massicciamente a investire nel settore della produzione di latte bovino e acquisendo di recente grandi aziende zootecniche in provincia di Brescia e di Cremona.